Non dovrei essere io a scrivere questo editoriale. Dovrebbe farlo il mio boss, l’editore Silvio Sosio, oppure il mio vice nella gestione della rivista, Francesco Lato. Due ottimi ragazzi, capaci, in gamba; che però, a quanto pare, se la fanno sotto all’idea di prendere il mio posto nelle pagine iniziali della rivista. Sa dio perché. Comunque, se mi ritrovate anche questa volta dovete ringraziare (o maledire, dipende dai punti di vista) il mio fratello spirituale Giuseppe Lippi, che con una dolcissima telefonata mi ha convinto allo sforzo. Dice Giuseppe che i fedeli lettori si aspettano, aprendo il fascicolo, di trovare sempre e comunque le mie illuminate parole. Mah. Avrà ragione? Avrà detto una fesseria? In ogni caso, ha perorato bene la causa, e quindi eccomi qui.
Perché, si chiederà qualcuno, non dovrei essere io a scrivere l’editoriale? Perché questo numero è stato assemblato non da me ma da Francesco Lato. A parte i racconti italiani, che avevo già scelto nei mesi scorsi, il resto del contenuto mi è ignoto. Sarò lettore vergine quanto tutti voi. E se non ho provveduto al mio compito istituzionale è perché, come qualcuno dei miei 3,5 lettori sa, sono malaticcio. A dirla tutta, sono da mesi in chemioterapia. Un tumorino all’intestino. Niente di particolarmente tragico. Una situazione localizzata che la chemio dovrebbe ammorbidire e la successiva operazione chirurgica estirpare. Insomma, ho buone speranze. Se non si verificheranno incidenti, s’intende. Il mio umore è alto, e la terapia mi ha restituito un vorace appetito che avevo perso da tempo. Resta purtroppo un effetto basilare di grande stanchezza fisica (mi addormento come una foca drogata davanti al più agghiacciante dei film splatter) che si ripercuote anche sul cervello. Sicché da tempo non scrivo, non traduco, in pratica non faccio niente. Vivo a sbafo, ma mica mi fa schifo. Sono sempre stato uno spudorato sfruttatore. Due soldi per tirare avanti li ho, e mia moglie percepisce regolare stipendio. Inoltre, appena mi sarò rimesso, fonderò il MAP (Movimento Aspiranti Pensionati), il partito nuovo che l’Italia aspettava. Garantirò lucrose pensioni a chiunque abbia compiuto 45 anni. Con qualche piccolo sacrificio economico per la nazione, chiaro, però chi ci farà caso? Non certo i miliardi di milioni di aspiranti pensionati del Bel Paese. Voglio diventare presidente del Consiglio. Alle prossime politiche, mi mangerò Silvio Berlusconi come ridere! E smetterò definitivamente di lavorare. Troppo bello.
Sentirti dire che hai un tumore significa, a livelli variabili, un incontro ravvicinato con la morte, un possibile/probabile scontro frontale al quale nessun SUV è in grado di resistere. Noi qui, e intendo genericamente nel mondo occidentale, abbiamo un ben strano rapporto con la morte. La raffiguriamo come uno scheletro munito di falce: la Grande Mietitrice, il nemico definitivo della specie umana. Salvo poi inventarci guerre a ogni piè sospinto per favorirne l’attività, ma chi ha mai detto che l’homo sapiens sia una creatura razionale? E tendiamo tutti a pensare di esserne immuni, per chissà quale privilegio. Sono sempre gli altri a morire, non noi. Scriveva Achille Campanile nel suo geniale romanzo Il povero Piero: “Malgrado la quasi assoluta certezza che tutti dovremo morire, e l’assoluta certezza che tutti quelli che ci hanno preceduto sono morti, pure tutti restano sorpresi dal fenomeno. Dirò di più: lo considerano una cosa incredibile e addirittura impossibile.” Quanta saggezza, che abbraccio in toto.
Personalmente, ho sempre considerato la morte l’ovvia conclusione del processo biologico che chiamiamo vita. Quella che odio e temo è la morte brutta, cattiva, dolorosa, ma mi risulta si siano fatti molti passi nella direzione giusta per evitarla. E anche la morte prematura è orribile, certo. Però pensate, ad esempio, al bellissimo finale di Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, con la processione danzante dei defunti che sacrificandosi hanno salvato una giovane coppia d’attori e il loro bambino. Pensate all’epica conclusione di Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, quando Giovanni Drogo affronta la sua ultima battaglia e ne esce con la grandezza dell’eroe che ha sempre sognato di essere e non è mai stato. Pensate a una frase di Leonard Cohen che mi è rimasta impressa per decenni: “Talora riesco ad assaporare la dolcezza della morte.”
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