21 aprile 2009, James Graham Ballard è appena scomparso. Ecco cosa dichiara Robert Weil, editore americano alla Norton, all'interno di un articolo comparso niente di meno che sul New York Times: “Il suo stile affabulatorio ha indotto i critici a recensire il suo lavoro come fantascientifico. Ma sarebbe come chiamare fantascienza Brave New World o 1984.”
Triste destino per la fantascienza. Nonostante decenni di critica, fiumi di carta per definirne i confini, basta un commento come questo per riportare tutto ai blocchi di partenza e fare capire con crudele evidenza agli appassionati qual è la percezione comune sul genere. Ma questa volta a scendere in campo a sua difesa si è mosso un pezzo da novanta: Ursula K. Le Guin in persona.
“Sono scioccata – scrive l'autrice sul suo sito – nel constatare come un editore, che ha avuto l'occhio lungo di pubblicare Ballard, possa poi rivelarsi così ignorante su ciò che il suo stesso autore ha scritto, così poco informato sulla natura e la storia della fantascienza come genere e sulla letteratura in generale a partire dagli anni '80. Com'è possibile credere, oggi, nel 2009, che sia avvilente per uno scrittore appartenere al genere fantascientifico?”
Si riapre dunque una vecchia ferita, dal momento che Weil non fa che riprendere una vulgata sulla base della quale la fantascienza viene identificata e appiattita su alcune delle sue prime (consapevoli) manifestazioni commerciali: i pulp magazines americani, che ospitavano storie dozzinali (nel senso letterale del termine di vendute a dozzine, privilegiando quindi quantità su qualità, in funzione della loro esplicita natura più ludica, di passatempo, che puramente letteraria, anche se ciò non toglie nulla alla loro importanza e al loro impatto sulla storia della fantascienza).
L'affermazione di Weil, peraltro non motivata, cancella con un colpo di spugna il lavoro di generazioni di critici come Darko Suvin, Damien Broderick e via dicendo. Anche grandi autori si sono cimentati nella definizione del genere. È celebre quella di Theodore Sturgeon, che fa risalire la parola scienza al latino scientia, per indicare non un metodo o un sistema, ma la conoscenza in sé (knowledge): la fantascienza diventa allora “knowledge fiction”. Anche noi in Italia abbiamo dato negli anni un contributo alla storia della critica con i vari Aldani, Curtoni, Lippi (la prima edizione di Robot!), Pagetti, tanto per citarne alcuni in ordine sparso e senza includere tanti benemeriti editori.
Niente da fare.
“Se il Signor Weil – prosegue la Le Guin – ritiene che le storie di H.G. Wells abbiano un qualche valore letterario, allora dovrebbe dichiarare che opere come La macchina del tempo non sia fantascienza, tirando in ballo, suppongo, il loro valore affabulatorio. Per inciso, lo stesso Wells ha chiamato le sue opere scientific romances. C'è un notevole esercizio di ginnastica mentale nel definire la fantascienza come un qualcosa di puramente commerciale, con una connotazione direi implicitamente da spazzatura, perché implica sia negare che qualsiasi opera fantascientifica possa avere valore letterario, sia che qualsiasi opera con valore letterario che sfrutta espedienti fantascientifici (come avviene proprio in Brave New World o 1984) non sia fantascientifica. Il termine fantascienza è oggi una categoria letteraria largamente accettata e in grado di descrivere adeguatamente i lavori di J.G. Ballard. Penso che gli editori che non riconoscono un simile fatto, come Weil, debbano scuse postume a Huxley, Orwell e Ballard.”
Parole sante. Chissà quando sortiranno un effetto.
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