l tempo è davvero gentiluomo, come vuole un’espressione proverbiale, se contribuisce a gettare nuova luce su opere che, a distanza di anni dalla loro pubblicazione, vengono rivalutate e meglio inserite in una ideale graduatoria.

Un romanzo che, a distanza di un ventennio dalla sua apparizione, merita sicuramente una rilettura è Gli anni alieni di Robert Silverberg. Apparso negli Stati Uniti nel 1998, è stato proposto l’anno successivo da Mondadori al pubblico italiano. Invece che in un unico volume, è stato diviso in due tomi: Urania 1360 (maggio 1999) e Urania 1362 (giugno 1999).

Se volessimo classificare l’opera, sia pur grossolanamente, dovremmo farla rientrare nel filone dell’invasione. Ma un simile incasellamento anche se formalmente corretto è abbastanza riduttivo, considerando il valore di un’opera nella quale si può individuare almeno un elemento comune con il giustamente celebrato Solaris di Stanislaw Lem.

La vicenda prende avvio all’inizio del XXI secolo quando una razza aliena sbarca sulla Terra. Si tratta di bizzarre creature, caratterizzate da un imponente corpo tubolare simile a quello dei cefalopodi, che atterrano in varie località del pianeta e iniziano quasi subito a comportarsi da dominatrici, ad esempio imponendo il lavoro coatto agli umani. Vengono chiamate “Entità”, nome generico che ben esprime l’imperscrutabilità dei loro scopi. Oltre a una enorme superiorità tecnologica possono contare sulla capacità di leggere le menti, individuando immediatamente le intenzioni ostili dei colonizzati. Ogni tentativo di resistenza pertanto viene puntualmente rintuzzato. Sono, inoltre, implacabilmente vendicative. A un attentato con delle bombe rispondono provocando un blackout totale, della durata di due settimane, che finisce per mettere in ginocchio l’economia del pianeta. Successivamente rispondono a un attacco, condotto con un laser orbitale, scatenando una pestilenza che dimezza la popolazione mondiale. I due terribili castighi, detti rispettivamente il “Grande Silenzio” e la “Grande Peste”, marchiano a fuoco l’immaginario collettivo degli uomini. Alcuni di questi, convinti dell’inutilità di ogni forma di resistenza, diventano collaborazionisti. Tuttavia, il figlio di uno dei fiancheggiatori, un dodicenne inglese di nome Khalid, volendo vendicarsi del padre violento, gli sottrae un’arma confiscata alla resistenza e con essa colpisce a morte una delle Entità. Non dovrebbe riuscirci, in teoria, ma è aiutato dalla complessità dell’animo umano: i sentimenti contraddittori del ragazzo, un misto di fredda determinazione e di sincera ammirazione per le creature venute dallo spazio, non vengono percepite come ostili e ciò non mette in allarme l’alieno preso di mira.

Apro una parentesi: questo episodio ha “vissuto di vita propria” sotto forma di racconto dal titolo Beauty in the Night ed ha preceduto il romanzo, essendo apparso nel numero di settembre 1997 sulla rivista Science Fiction Age. In Italia è stato inserito in Urania Millemondi n° 20 Estate 1999 Il gioco infinito con il titolo Bellezza nella notte.

Ma l’avventura di Khalid, per quanto avvincente, è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complesso. Le vicende di altri personaggi concorrono a definire lo scenario. Ad esempio quelle del giovane hacker ungherese Karl Heirich Borgmann, destinato a percorrere una parabola che lo porta dal potere quasi assoluto alla rovina. In questo caso lo sfondo è una Praga resa tetra dal giogo extraterrestre.

Dall’altro lato dell’Atlantico agiscono i membri della famiglia Carmichael. Numerosa e decisamente patriarcale, ha la figura più autorevole in Anson III, un ufficiale in pensione, poco più che sessantenne, che tutti chiamano “il colonnello”. Questa vera e propria tribù californiana riesce a superare i vari flagelli che colpiscono l’umanità essendosi asserragliata in una residenza sulle colline, il cosiddetto “Rancho Carmichael”, una sorta di Fort Alamo culturale in cui si cerca di tenere in vita le buone vecchie tradizioni americane. Senza rinunciare al sogno del riscatto, della libertà, della riscossa.

Nella seconda parte del romanzo varie vicissitudini portano Khalid ad essere integrato nella famiglia americana. Quest’ultima, con l’aiuto del nuovo arrivato, dapprima riluttante, organizza due clamorosi attentati. Il primo fallisce ma il secondo, condotto da Rasheed, il figlio di Khalid, ha successo e infligge dure perdite alle comunque invincibili Entità. La resistenza, velleitaria fin che si vuole, fornisce agli uomini uno scopo e li aiuta ad andare avanti sia pure a rischio ti terribili ritorsioni. Alla fine, dopo circa cinquanta anni di occupazione, senza dare alcun segnale e senza nessun motivo apparente, gli alieni abbandonano la Terra aggiungendo all’imperscrutabilità dei loro scopi il mistero di un’occupazione a tempo determinato.

Oltre che per la trama, ricca e articolata ma non particolarmente complessa, la narrazione è avvincente grazie allo sviluppo parallelo delle vicende dei vari personaggi principali. Le singole storie brillano di luce propria e rappresentano altrettante tessere di un mosaico sapientemente strutturato. Beauty in the Night, in particolare, è uno splendido racconto grazie al quale un maestro indiscusso della narrazione quale è Robert Silverberg crea delle figure a tutto tondo, perfettamente definite nel loro profilo psicologico e, per certi versi, indimenticabili. Se le figure esotiche degli europei Khalid e Karl Heirich si fissano facilmente nella memoria, non meno significative sono quelle dei Carmichael, a partire da Anson. Il tentativo di sopravvivere comunque, non solo fisicamente ma anche attraverso la difesa di consuetudini e tradizioni, qui è mostrato come caratteristico di quell’America profonda tanto ben raccontata da John Steinbeck prima e da Jack Kerouac dopo. Silverberg si serve della dinastia californiana per mostrare come una moderna famiglia statunitense, sotto la minaccia di un pericolo tangibile e immediato, sceglierebbe di tornare alla vita rurale come a cercare protezione nel nucleo più vero, conosciuto e affidabile dell’America. Senza mai rinunciare, comunque, alle armi e a quella capacità di battersi che ha le radici nell’immaginario costruito durante l’epopea della frontiera.

Il significato più profondo dell’opera, al di là della magistrale costruzione dei personaggi e della solida architettura della trama, sta in ciò che l’autore ha voluto trasmettere ai suoi lettori. In questo, come anticipato, si può individuare almeno un elemento comune, ma non trascurabile, con il Solaris di Stanislaw Lem.

In entrambi i romanzi l’elemento extraterrestre è estraneo non solo per la biologia ma anche e soprattutto per gli scopi che persegue, totalmente al di fuori degli orizzonti della limitata mente umana. Questa non li decifra, si ferma alle manifestazioni esteriori del potere delle Entità immaginate da Silverberg, così come brancola nel buio di fronte all’oceano senziente creato dal maestro polacco. Ne scaturisce una salutare lezione di umiltà impartita a una specie convinta, per miopia, abitudine o convenienza, che il creato sia un terreno vergine da conquistare in un’ottica totalmente antropocentrica.

Non siamo soli nell’Universo, non siamo i più forti, non siamo i migliori e neanche “i più cattivi” sembra dirci l’autore americano.

Per questi motivi, The Alien Years merita grande considerazione tra gli appassionati e andrebbe consigliato anche a chi è ritroso di fronte alla fantascienza. Probabilmente non verrà ricordato tra i capolavori di Robert Silverberg. Difficile trovare un posto al sole accanto a opere quali Dying Inside (1972), Shadrach in the Furnace (1976) e Nightfall (1990). Ma parliamo comunque di uno dei migliori romanzi dell’autore newyorkese e tra le opere più significative della Science Fiction degli anni ‘90. Per nulla datato e di piacevole lettura, merita sicuramente un posto tra quei piccoli capolavori della fantascienza che non vanno dimenticati.